Testo Critico a cura di Francesca Bogliolo
Noi siamo la nostra memoria,
noi siamo questo museo chimerico di forme inconstanti,
questo mucchio di specchi rotti.
(Jorge Luis Borges)
La memoria scivola informe all'interno di una materia immobile, silenziosa, instabile. Un letto immacolato accoglie un corpo ligneo fragile, dolente come un crocifisso quattrocentesco steso sulla propria croce, fatta gemmare al fine di divenire essa stessa immagine di intensa sofferenza. Il materiale vivo cessa la propria forma per mutare in una sorta di ibrido archetipico, alieno nella forma e nella sostanza, intriso di muta espressività. Come un artista medievale Ivano Parolini cerca l'identificazione con il soggetto, tentando ciò che la malattia compie con implacabile regolarità: far dimenticare. Cedro, catrame e scaglie di pietra si caricano di un forte significato simbolico, per nulla ovvio, criptico quanto la malattia stessa. L'artista elabora un'iconografia antropomorfa del tutto personale, attribuendo al legno il ruolo principale, destinato a essere snaturato da un materiale originato al suo stesso interno, il catrame, e immobilizzato da una materia corrosa e arida, la pietra. A fare da collante è il nero, un non colore che colloca la vita in un non luogo, un limbo da cui la mente sembra incapace di fare ritorno. Parolini sa tacere e far tacere, invitare lentamente ad approfondire la logica dell'oblio. Davanti all'installazione il sé di ciascuno gradatamente svanisce, sfuma i suoi contorni, evapora per lasciare posto a un intenso sentimento universale in cui è inevitabile riconoscersi. Sul letto affonda un sentimento intimo, sacro e antico quanto il tempo, privato della sua leggibilità. Nessuno, sembra dirci l'artista, può rifuggire il dolore, né sottrarsi alla paura, alla malattia, alla morte. Tuttavia l'umanità mantiene immutato un privilegio: può creare, vivendo un istante estetico, un equivalente simbolico dell'esperienza, capace di traslare la realtà, che diviene nuova, attraverso l'opera d'arte. Ecco allora che quel corpo che sembrava aver perduto le proprie fattezze le ritrova intatte, mostrandosi agli occhi con la forza di un carrubo donna o di un carrubo mostro di Carlo Levi, risvegliando nei nostri sensi la coscienza di un'identità, favorendo un'incessante dialettica tra reale e immaginario. Il tronco martoriato di Parolini diviene prezioso custode, scrigno di individualità, specchio frammentato di una vita che non è stata solo immaginata. Attraverso la materia, la vita ritrova la dignità perduta. Se, come sostiene Henderson, "le persone con l'Alzheimer pensano – forse non pensano le stesse cose delle persone normali, ma pensano. Si domandano come le cose succedano, perché succedano in un dato modo. Ed è un mistero.", Ivano Parolini si fa testimone interprete di quel mistero, penetrandone l'essenza, ostendendone la presenza, manifestandone la verità.